La Fed non ha ancora finito il lavoro

Negli Stati Uniti l’inflazione si sta rivelando più persistente di quanto ampiamente ipotizzato. Cresce di conseguenza la pressione sulla Fed per un inasprimento continuo e deciso della politica monetaria.

«Get the Job Done». È un’espressione onnipresente nel linguaggio americano. «Finisci il lavoro» riflette un atteggiamento profondamente radicato nella società americana. Non c’è da stupirsi, dunque, che anche il presidente della banca centrale statunitense Jerome Powell ricorra a questa locuzione familiare nei comunicati inerenti il contrasto all’inflazione.

Ma quanto impiegherà la Fed a finire il lavoro? Probabilmente molto più tempo di quanto finora previsto dai mercati. È quanto sembrano indicare sempre più dichiarazioni rilasciate recentemente da funzionari della Fed. Ad esempio, in un articolo pubblicato mercoledì, il presidente della Fed Atlanta Raphael Bostic ha scritto che il tasso di riferimento salirà fino al 5,25% e che rimarrà a questo livello fino al 2024. Rispetto all’attuale livello del 4,75% (fascia target superiore), ciò costituirebbe un ulteriore inasprimento di altri 50 punti base.

Seguirà un ennesimo intervento deciso sui tassi?

Sembra che non si possa neanche più escludere una nuova stretta della Federal Reserve. Anche il presidente della Fed Minneapolis, Neel Kashkari, ha dichiarato mercoledì di essere disposto a votare a favore di un aumento di 0,5 punti percentuali nella prossima decisione sui tassi di interesse del 22 marzo. Ricordiamo che la Fed ha avviato il ciclo di rialzo dei tassi nel marzo dello scorso anno. Dopo alcuni incrementi moderati, inizialmente di 25 e poi 50 punti base, è passata a un ritmo storicamente accelerato di inasprimento e per quattro volte consecutive ha aumentato il tasso di riferimento statunitense ben dello 0,75%. A partire dallo scorso dicembre, ha ridotto la velocità con un incremento di 50 punti base e, infine, di 25 punti base.

Non è un caso che diversi rappresentanti di alto livello della Fed abbozzino un ciclo di rialzo non solo più lungo, ma forse anche più vigoroso. Di recente, infatti, si sono moltiplicati i segnali che indicano che l’inflazione negli Stati Uniti sia divenuta più ostinata del previsto e che il ritorno al target della banca centrale (<2%) si rivelerà più arduo e più lungo del previsto.

Questa valutazione della Fed poggia soprattutto sull’andamento dei prezzi dei servizi di base (esclusa la componente dei costi abitativi). Infatti, mentre la tendenza al ribasso dell’inflazione complessiva rimane, pur avendo di recente perso slancio, nel complesso inalterata, l’aumento dei prezzi dei servizi di base si rivela estremamente resistente. Su base annua è addirittura cresciuto negli ultimi tempi (v. grafico).

È un dato problematico in quanto la crescita salariale è un fattore determinante in questa categoria di prezzi. Tuttavia, a causa del prosciugamento del mercato del lavoro e, di conseguenza, del forte potere contrattuale dei lavoratori, rimane a livelli decisamente troppo elevati. In questo senso la politica aggressiva attuata dalla Fed ha finora mancato il colpo. O, come dice Kashkari: «Non ravvisiamo ancora molti indizi che i nostri aumenti dei tassi di interesse rallentino il settore dei servizi dell’economia, e questo mi preoccupa.»

Risposta nervosa dei mercati finanziari

La retorica ora più aggressiva dei vertici della Fed lascia forti segni sui mercati finanziari, e non solo sulle borse azionarie e obbligazionarie. Le aspettative, a nostro avviso già da molto tempo eccessivamente ottimistiche riguardo ai tassi d’interesse, sono state nettamente corrette. Sui mercati a termine, ad esempio, è frattanto stato scontato un tasso d’interesse massimo («terminal rate») superiore al 5,4%. All’inizio dell’anno, gli operatori di mercato si aspettavano ancora un tasso del 4,9%.

Dopo l’eccessivo ottimismo, riteniamo che queste aspettative di mercato siano ora troppo pessimistiche. Al momento prevediamo che la Fed introdurrà quantomeno una tregua nel ciclo di rialzo dei tassi d’interesse al 5,25%. E riteniamo di poter confermare la nostra previsione che il riferimento statunitense rimarrà a questo livello fino al 2024 e che quest’anno non sia in gioco un allentamento della politica monetaria. Ma questo significa anche che resteranno forti e che continueranno a soffiare i venti contrari per la congiuntura americana. Al momento non ci attendiamo una flessione della performance economica statunitense, ammettiamo però che siano fortemente cresciuti i rischi di recessione. Ad ogni modo, per l’anno in corso si può prevedere nel migliore dei casi una crescita economica estremamente debole negli Stati Uniti, con conseguenti ripercussioni anche sulla congiuntura globale. Come di consueto, infatti, quando l’economia americana prende il raffreddore, il mondo accusa almeno degli attacchi di tosse.

«Get the Job Done». La Fed non ha ancora finito il lavoro. Ma al momento sta lavorando alacremente per dissipare i dubbi sulle sue intenzioni di portarlo effettivamente a termine. I mercati finanziari fanno bene a non adottare più una posizione sulla base delle loro speranze e a cessare di speculare su un cedimento della Fed. Dovrebbero piuttosto prepararsi a un protrarsi dei venti contrari della politica monetaria. Finché il lavoro non sarà portato a termine.

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