Il prezzo del caffè: sintomatico del rincaro alimentare

Caffè e non solo: i prezzi alimentari salgono ancora, producendo un’«inflazione nell’inflazione» difficilmente arginabile con la politica monetaria.

Immagino che oggi abbiate già bevuto almeno un caffè. E se siete come me, assaporare una bella tazza nera fumante è un rituale mattutino irrinunciabile. Macchiato o nero, espresso o americano, in capsule o macinato in grani: per molti di noi, il caffè è un piacere quotidiano. Rovinato solo dall’andamento dei prezzi.

Infatti, per gustarsi una tazza di bevanda ristoratrice bisogna ormai mettere le mani a fondo nel portafoglio, soprattutto fuori casa. Il prezzo medio nazionale per un «caffè crème» è di circa 4,40 franchi. Secondo CafetierSuisse, l’associazione di settore che riunisce i bar e la gastronomia individuale, l’aumento medio dei prezzi rispetto al 2021 sfiora il 10%.

I prezzi dei generi alimentari aumentano più della media

Guardando ai prezzi al dettaglio, questa impennata non sorprende. Rispetto all’anno precedente, a novembre i negozi al dettaglio hanno dovuto pagare oltre il 6% in più per il caffè. Questo prodotto segue quindi l’andamento generale dei prezzi dei generi alimentari, nettamente superiore al tasso d’inflazione complessivo. Se in novembre il rincaro annuo generale in Svizzera si è attestato al 3%, il dato riferito ai generi alimentari e alle bevande analcoliche è schizzato intorno al 4,4%.

Non è poco, soprattutto se si vanno a guardare i prezzi di alcuni prodotti che sono letteralmente saliti alle stelle. La margarina e i grassi alimentari, ad esempio, costano oltre il 25% in più rispetto a un anno fa. La pasta registra un aumento vicino al 15%, mentre bisogna sborsare circa il 10% in più per il pesce fresco.

A confronto con il resto d’Europa, è comunque un rincaro limitato (v. grafico). Nell’Eurozona, l’inflazione dei generi alimentari si è attestata intorno al 16% a ottobre (l’ultimo dato disponibile). I grassi e gli oli costavano oltre il 30% in più rispetto a un anno fa. Per il latte, il formaggio e le uova bisognava pagare il 21% in più, mentre le verdure sono aumentate del 20%. Di conseguenza, anche nell’Unione monetaria l’aumento dei prezzi dei generi alimentari è nettamente superiore al tasso d’inflazione generale, e per giunta a livelli ancora più dolorosi rispetto a quelli svizzeri.

Fuori dalla portata della politica monetaria

Questo drastico aumento dei prezzi per beni di uso quotidiano rappresenta, da un lato, una vera e propria maledizione per il potere d’acquisto dei consumatori e, dall’altro, una sfida crescente per le banche centrali nella lotta all’eccessiva inflazione. Una sfida contro la quale, in ultima analisi, gli strumenti di politica monetaria sono più che limitati. Infatti, il rincaro dei generi alimentari non è dovuto a un surriscaldamento della domanda dei consumatori. Piuttosto, le cause sono da ricercare nella guerra in Ucraina, nella perturbazione delle catene di fornitura e nell’aumento dei prezzi dell’energia. Fattori esogeni, quindi, che esulano in larga misura dalla sfera d’influenza della politica di una banca centrale.

La stretta monetaria e il conseguente rincaro di molte voci che contribuiscono a formare il costo della vita, dalle spese abitative agli interessi debitori, possono contribuire a un certo raffreddamento dei prezzi per alcuni generi alimentari non proprio quotidiani. Per farla semplice, se il costo della vita aumenta, si può fare a meno di un filetto di manzo. Il latte, il riso e la frutta, invece, rientrano in quel fabbisogno di base dove la sostituzione con alternative più economiche è praticamente impossibile. Si parla a questo proposito di inelasticità della domanda.

I prezzi dei generi alimentari aumentano più della media

Riteniamo che tale contesto confermi la nostra valutazione secondo cui, nonostante il superamento del picco dell’inflazione, il dilemma per le banche centrali persiste o si aggrava ulteriormente: per far davvero rientrare un’inflazione persistente e clamorosamente eccessiva, a una banca centrale resta in ultima analisi solo la strada di una stretta monetaria. Se, invece, la pressione inflazionistica si scarica soprattutto sui generi alimentari, una banca centrale ha le mani legate. Ma c’è un «ma»: nemmeno mollare le redini della politica monetaria sembra un’opzione promettente. In questo caso c’è il grosso rischio che ai fattori esogeni dell’inflazione si aggiungano anche quelli legati ai consumi.

Insomma, facile commettere un errore che costerebbe (letteralmente) caro. Le banche centrali, in particolare la BCE, devono compiere un difficile esercizio di equilibrismo tra il contrasto all’inflazione generale e la necessità di evitare un ulteriore aumento del peso relativo della spesa alimentare. Per il momento, di fronte a questa situazione è probabile che portino avanti la loro politica di rialzo dei tassi d’interesse, ma a un ritmo più lento. Un significativo miglioramento sul fronte dei prezzi dei generi alimentari appare tuttavia improbabile. Prima è necessario che vengano rimossi i fattori che li hanno spinti alle stelle. Fino a quel momento, ai consumatori davvero non resta che stare calmi e prendere un tè. O un caffè.

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