Nelle urne le sorti dell’Italia. Di nuovo.

L’Italia si appresta ad eleggere un nuovo governo nel fine settimana. La pronosticata deriva verso destra è una sfida per i rapporti dell’Italia con l’Europa, ma anche per l’eurozona in sé.

Cominciamo con un quiz: in Italia il Parlamento e il governo vengono sempre eletti per una legislatura quinquennale. Quanti sono stati quindi i governi del nostro vicino meridionale negli ultimi dieci anni? Due? Questa sarebbe quantomeno la risposta più ovvia. In realtà, però, sono stati sei. E questo fine settimana, gli italiani sono chiamati alle urne per votare il settimo governo.

Forse in Italia e in Europa ci si è assuefatti a questo va e vieni a Palazzo Chigi – dalla fine della II Guerra Mondiale sono stati ben 71 i governi che si sono avvicendati a Roma. Nel migliore dei casi, si constatano con una scrollata di spalle le talvolta stridenti figure che scaturiscono regolarmente dalla continua campagna elettorale italiana. Ma in vista delle prossime elezioni la situazione è particolarmente delicata: con Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia (FdI), è molto probabile che alla guida del governo non sarà solo per la prima volta una donna, ma anche una personificazione del postfascismo. Il partito FdI affonda infatti le proprie radici nel Movimento Sociale Italiano, fondato nel 1992, che ha letteralmente fatto della sua bandiera la salvaguardia del patrimonio politico di Benito Mussolini.

Un banco di prova per i rapporti fra Roma e Bruxelles

Ad un esame più attento questa circostanza non sorprende, tenuto conto del rispetto di cui gode ancora il «Duce» dietro al braccio teso di alcuni gruppi della popolazione italiana. Irritante è invece la retorica antieuropea con cui Meloni e i suoi alleati della lega di Matteo Salvini e di Forza Italia di Silvio Berlusconi – sì, esiste ancora – sembrano riuscire a ottenere il favore dell’elettorato italiano. È vero che Giorgia Meloni ha utilizzato toni moderati nella campagna elettorale, ma ascoltandola con più attenzione non ci si può non rendere conto che le relazioni tra Bruxelles e Roma vanno incontro a un periodo difficile. Ne è un chiaro segno l’appello lanciato da Meloni nell’unico duello televisivo dell’11 settembre, in cui ha affermato che è finita la pacchia e che anche l’Italia comincerà a difendere gli interessi nazionali.

Non è difficile intuire che cosa si possa intendere con «interessi nazionali». L’obiettivo principale dovrebbe essere quello di garantire i circa 20 miliardi di euro trimestrali che saranno stanziati all’Italia dai fondi UE Next Generation, che in realtà sarebbero vincolati a obblighi di ristrutturazione e riforma.

Dubbiosa la disponibilità alle riforme

Eppure: fra gli alleati di Meloni non si osserva questa volontà di attuare riforme. Anzi, Berlusconi promette con la passione che lo contraddistingue di alzare le pensioni mensili ad almeno 1000 euro, e il segretario della Lega Salvini vuole addirittura un’aliquota unica d’imposta sul reddito, un’amnistia per gli evasori fiscali e il pensionamento anticipato per tutti. Non è chiaro il corrispettivo finanziamento. Quando Meloni esorta i suoi alleati a non promettere più di quanto non si possa mantenere, ciò ha, da un lato, una connotazione tipica da statista e, dall’altro, un retrogusto di tattica elettorale. Come ha detto lei stessa in un dibattito parlamentare: «La debolezza della crescita italiana non è imputabile alle imprese italiane, ma alla cattiva gestione della moneta unica». Non si esprime però così una disponibilità incondizionata ad affrontare i problemi interni.

Sono infatti anche dichiarazioni di questo tipo a spingere Bruxelles e Francoforte a guardare con una certa preoccupazione ciò che avverrà nel fine settimana in Italia. Perché a causa del suo ingente pubblico, pari a circa il 150% del PIL, la terza economia dell’Unione monetaria è ormai da tempo sotto stretta sorveglianza dei mercati finanziari. Se, in un’eventuale vittoria elettorale, Meloni e i suoi avversari dovessero mettersi, anche solo marginalmente, in rotta di collisione con l’UE e la BCE, il premio di rischio sui titoli di Stato italiani aumenterebbe (vedi grafico) e i costi di rifinanziamento e debito andrebbero a pesare ancora di più sul bilancio italiano.

«Aumenterebbe» e «andrebbero». Il congiuntivo è appropriato in questo caso. Dopo tutto, l’Italia è troppo importante e troppo legata all’UE e all’eurozona per essere abbandonata al proprio destino. Circa il 30% dei quasi 2,8 bilioni di euro di debito italiano è ormai nei libri contabili della BCE. Un altro 20% è detenuto da investitori non italiani. In questo contesto, la BCE non potrebbe evitare di attivare il nuovo Transmission Protection Instrument (TPI), acquistando soprattutto obbligazioni italiane per tenere sotto controllo i credit spread. Ne consegue una strana situazione in cui le istituzioni europee sostengono niente meno che un governo euroscettico.

Too big to fail

Visto in questi termini, il poker di Meloni e dei suoi alleati potrebbe anche funzionare. Il too big to fail non esiste solo nel mondo aziendale. Per l’Unione monetaria nel suo complesso, tuttavia, questo evolversi rappresenta una nuova avversità. Perché, in effetti, tutto questo darebbe l’impressione che ribellarsi alle direttive di Bruxelles e Francoforte alla fine venga addirittura premiato. A comandare non è chi paga, bensì chi percepisce. È difficile negare che non piacerà in particolare all’elettorato dell’Europa settentrionale, e che si rafforzeranno ulteriormente le forze centrifughe all’interno dell’Unione.

Oltre alle notevoli preoccupazioni congiunturali, anche rischi politici continuano a mettere sotto pressione la moneta unica. Un’imminente distensione monetaria appare quindi ancora più improbabile, anche se l’eurozona avrebbe urgentemente bisogno di un euro più forte, almeno per attenuare l’inflazione importata. Quelle del fine settimana sono elezioni che vanno ben oltre i confini italiani. Ma se guardiamo alla storia, non è errato avere per lo meno un pizzico di serenità. Perché se ci sarà il 72º governo, molto probabilmente il 73º non sarà poi così lontano. Dalla fondazione della Repubblica nel 1946, la durata media del governo italiano è stata inferiore a un anno.

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