L’aveva annunciato e ha mantenuto la promessa. In pieno suo stile il presidente americano Donald Trump ha minacciato, introdotto, in parte ritirato e poi ancora minacciato altri paesi con i famigerati dazi doganali. La situazione è in rapida evoluzione e la volatilità sui mercati finanziari in aumento.
Nello scorso anno il concetto dei dazi doganali è tornato di moda essendo stato il cavallo di battaglia durante la campagna elettorale di Donald Trump, il quale ha minacciato di voler introdurre un dazio molto elevato del 60 percento sui beni di origine cinese e del 20 percento sulle altre importazioni. Trump è però anche conosciuto per rimescolare le carte in tavola e stravolgere le proprie affermazioni. Non appena entrato in carica non ha perso tempo e il 1° febbraio ha comunicato l’intenzione di imporre un dazio generale a partire dal 4 febbraio del 25 percento sui beni di provenienza canadese e messicana, paesi con i quali tra l’altro è un vigore un accordo di libero scambio commerciale NAFTA. Questo accordo era già stato in parte rinegoziato durante il primo mandato presidenziale di Trump. L’introduzione di questa misura è stata motivata con il fatto che entrambi i paesi fanno troppo poco per fermare l’immigrazione clandestina e il traffico di stupefacenti ai loro confini. Una motivazione che il Wall Street Journal, di orientamento conservatore e vicino agli ambienti economici e finanziari, ha definito come “la più stupida guerra commerciale di sempre”.
La legge del più forte
Con il suo annuncio Trump ha messo sotto pressione i due suoi paesi confinanti. Le reazioni sono state però differenti: da una parte il primo ministro uscente canadese Justin Trudeau ha risposto annunciando a sua volta l’introduzione di dazi doganali sui beni proveniente in particolar modo da stati tradizionalmente repubblicani. D’altro canto, la risposta messicana è stata più prudente ed orientata al dialogo, dato che l’economia del paese è molto dipendente dallo scambio commerciale con gli USA. Dopo aver ottenuto promesse da entrambi di un maggior controllo alla frontiera il presidente americano ha dunque sospeso per 30 giorni l’introduzione dei dazi. Trump è ben consapevole della forza economica degli Stati Uniti e la utilizza per mettere sotto pressione paesi alleati per ottenere ciò che desidera senza passare della più lente vie diplomatiche. Cosa che anche durante il suo primo mandato era successa.
I mercati finanziari hanno reagito in maniera disorientata all’annuncio dell’introduzione e al successivo dietro-front, con il dollaro che si è rafforzato ulteriormente rispetto alle valute dei suoi principali partner commerciali. Il momento è ancora prematuro per quantificare gli effetti dei dazi sull’economia americana e sulla politica monetaria della Fed. Pure il suo presidente Jerome Powell ha ammesso che non si hanno a disposizione ancora abbastanza elementi per pronosticare l’impatto sulla crescita economica, sull’inflazione e dunque anche sui mercati azionari.
Nessuno verrà risparmiato?
A inizio febbraio la Cina è stata colpita dai dazi, che a differenza dei paesi nordamericani, sono entrati effettivamente in vigore. Non però nella misura urlata durante la campagna elettorale, bensì con un decisamente minore 10 percento. Il commercio con la Cina era già stato sottoposto a dazi durante il primo mandato Trump e in parte aumentati durante la presidenza Biden. Infatti, dopo l’apice raggiunto nel 2018 con 539 miliardi le importazioni dal gigante asiatico sono diminuite nell’arco di 5 anni del 20 percento. Se la guerra commerciale con la Cina può anche essere letta come battaglia per l’egemonia geopolitica mondiale, con il desiderio di non rafforzare economicamente la controparte, questo non si può dire che sia il caso con i paesi europei.
Infatti, l’Unione europea sembra essere il prossimo candidato sulla lista del presidente americano. Nonostante gli Stati Uniti siano il maggior destinatario di esportazioni dell’Unione Europea non vi è alcun accordo di libero scambio e in passato i tentativi di introdurlo sono naufragati. Come per molti altri spazi economici risultata dal punto di visto americano un deficit della bilancia commerciale di circa 150 miliardi di euro. Ciò non piace a Trump, che recentemente al World Economic Forum di Davos si è lamentato del difficile accesso al mercato europeo per i prodotti americani. Malgrado la retorica sensazionalistica di Trump, vi è un fondo di verità nelle sue affermazioni. Uno studio della think tank della banca ING mostra come l’Unione Europea prelevi già attualmente dei dazi in media superiori a quelli prelevati dagli americani (3,95 percento contro il 3,5 percento). Uno sguardo più attento mostra come questa discrepanza risulti da una maggiore imposizione europea sui prodotti agricoli, alimentari e animali, dovuta ai minori standard di protezione del consumatore in vigore oltreoceano.
La Svizzere invece ha abolito qualsiasi dazio doganale sui prodotti industriali a partire dal 2024. Gli unici dazi rimanenti riguardano i prodotti agricoli e della pesca, che sottostanno a uno stretto regime doganale per proteggere il mercato interno. Basterà ciò per ottenere un trattamento di favore da parte del governo americano o la Svizzera verrà trattata alla stregua degli altri paesi europei? In ogni caso vi sarà un effetto per la crescita economica nel nostro paese. Dato che la Svizzera è una piccola economia aperta per la quale gli scambi commerciali sono molto importanti, se gli Stati Uniti dovessero colpire la zona euro con dazi doganali, sarebbe molto probabile che ciò vado a peggiorarne ancora di più la fragile situazione congiunturale, con un rallentamento ulteriore o una recessione che andrebbe a indebolire ancora di più la domanda per beni svizzeri. Un ulteriore canale di trasmissione sarebbe l’ulteriore rafforzamento del franco rispetto all’euro, costringendo la Banca nazionale svizzera (BNS) a intervenire ulteriormente.
La situazione è quindi molto volatile e ci sono ancora molti interrogativi. Nello scenario di base però è da prendere in conto che vi sarà una qualche restrizione allo scambio commerciale con gli USA, rallentando quindi la ripresa economica nel vecchio continente.

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