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Prospettive d’investimento gennaio 2025
Confronto con la realtà!
Editoriale
La coscienza dei mercati
Gentili investitrici e investitori,
nei prossimi dodici mesi la politica economica di Donald Trump procurerà un «picco glicemico» alla congiuntura americana. La deregolamentazione e gli sgravi fiscali stimoleranno la crescita nel breve termine e, contestualmente, le barriere commerciali previste sosterranno la produzione interna. Tuttavia, ci si chiede se l’economia statunitense abbia davvero bisogno di tutto questo sostegno. Infatti la situazione sta già andando a gonfie vele anche senza misure di politica fiscale. Attualmente, nella sua valutazione in tempo reale GDPNow, la Fed di Atlanta stima che l’economia statunitense sia cresciuta di circa il 2,5% nell’ultimo trimestre dello scorso anno, un ritmo che dovrebbe grossomodo mantenere anche nel 2025. Tuttavia, anche senza il supporto delle politiche economiche, si sarebbe comunque raggiunto un solido tasso di crescita del 2%. Il «booster» di crescita pensato da Trump non sarebbe dunque strettamente necessario, soprattutto considerando che non è privo di costi. Come ogni medaglia, anche questa ha il suo rovescio.
Guardando a qualche anno fa, la più grande ondata inflazionistica degli ultimi decenni ha costretto la Fed ad aumentare i tassi d’interesse con rara veemenza. L’obiettivo era raffreddare l’economia americana, surriscaldatasi dopo la pandemia, per contenere l’inflazione ormai fuori controllo. E la Fed ci è riuscita. L’inflazione è scesa dapprima rapidamente, poi più lentamente, verso il target del 2%, scongiurando la temuta recessione. Ciò che si è verificato è stato un «atterraggio morbido» storicamente raro.
Proprio quello che ora Donald Trump rischia di mettere a repentaglio: non sul piano congiunturale, dove è prevista la spinta alla crescita già menzionata, ma con il rovescio della medaglia, ovvero l’inflazione. Un nuovo aumento dell’inflazione sarà il prezzo da pagare per l’accelerazione congiunturale auspicata. E non è l’unico aspetto: chi riduce le tasse deve reperire i soldi per l’attività dello Stato in altro modo, ad esempio contraendo nuovi debiti. Non è altro che una crescita a credito. All’occorrenza questa può essere opportuna e necessaria, ma se si esagera, i rischi aumentano sempre più assumendo la forma di una gigantesca montagna di debiti.
Per il momento i mercati azionari si preoccupano poco dei rischi derivanti dalla spinta alla crescita orchestrata dalla politica fiscale. Ma chi altro deve farci caso se non i mercati azionari? Certamente la Fed, che a dicembre ha già fatto capire che i tassi potrebbero scendere meno rapidamente del previsto a causa dell’aumento dei rischi inflazionistici. I veri guardiani di una politica economica statunitense orientata a lungo termine sono tuttavia i mercati obbligazionari, che si ribelleranno se Donald Trump esagera con la spinta alla crescita a scapito della stabilità dei prezzi e del debito pubblico. L’aumento dei rendimenti dei treasury a dieci anni dal 3,6 al 4,6% negli ultimi mesi dell’anno scorso dimostra l’occhio vigile del mercato obbligazionario. Non sarebbe la prima volta che, attraverso massicci aumenti dei tassi, il mercato obbligazionario disciplina un governo che agisce con eccessiva spensieratezza in termini di politica fiscale. La svendita sul mercato americano dei treasury nel 1994, passata alla storia come il «Great Bond Massacre», dimostra la funzione dei mercati obbligazionari quali guardiani di una politica fiscale sostenibile e di una coscienza dei mercati, proprio come la ribellione, nota come il «momento Liz Truss», sui mercati obbligazionari del Regno Unito nel 2022.
Mentre i mercati azionari continuano dunque a concentrarsi, fino a un certo punto a ragione, sui vantaggi della politica economica statunitense, i mercati obbligazionari muovono le (prime) critiche. Gli investitori faranno bene ad ascoltare anche loro. E ugualmente Donald Trump.
Cordiali saluti
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Michael Birrer
Responsabile Research & Advisory
La nostra valutazione
Sogno e realtà
Rispetto a dicembre, il contesto congiunturale è pressoché invariato a inizio anno. È quindi una buona occasione per concentrarsi sulle imponderabilità del 2025. In-fatti bisogna fare i conti con la realtà.
Il nuovo anno si aprirà con il giuramento di Donald Trump come 47º Presidente degli Stati Uniti. Dal 20 gennaio, il repubblicano sarà per la seconda volta alla guida della nazione economicamente e militarmente più potente del mondo.
Per gli avversari e gli alleati degli Stati Uniti, con l’insediamento del vecchio nuovo presidente inizia un periodo di incertezza. Perché, se c’è una cosa prevedibile in Donald Trump, è la sua imprevedibilità, che non rappresenta solo una sfida per l’attività politica a Washington, ma è anche il tallone d’Achille di molti governi, rappresentanti dell’economia e operatori dei mercati finanziari di tutto il mondo. Tendendo a concentrarsi troppo sul risultato ottimale auspicato, si ignorano risultati spiacevoli ma altrettanto possibili. Nel caso di Donald Trump, l’idea diffusa è che i dazi punitivi minacciati e gli scontri di politica commerciale non si verifichino nella misura temuta. Dopotutto, la minestra viene cucinata sempre più calda di come si mangia, e alla fine Trump deve comunque raggiungere un accordo, giusto?
Trump 2.0: poco depone a favore della mo-derazione
Questa prospettiva non è priva di pericoli. Essa sottovaluta tre cose: in primo luogo, «America First» è la massima di Trump, che è letteralmente ossessionato da una nuova «Golden Age». Per raggiungerla farà tutto ciò che è in suo potere, indipendentemente dai danni collaterali all’economia mondiale. E se Trump ritiene che un ampio regime doganale punitivo sia una delle misure appropriate, allora sicuramente lo imporrà. L’ossessione di una nuova epoca d’oro degli Stati Uniti non è certo oggetto di contrattazione nel suo deal-making.
In secondo luogo, basta ricordare il primo mandato di Trump. Guerra commerciale? Appena entrato in carica, il repubblicano l’ha scatenata con tutta la sua forza. Ha difeso la sua idea di giusto e sbagliato con misure protezionistiche senza compromessi, a fronte di tutte le indignazioni internazionali e le proteste del suo entourage. Perché Trump dovrebbe adottare una linea più moderata nel suo secondo mandato?
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Questo ci porta al terzo punto: non solo i presidenti degli Stati Uniti sono generalmente meno disposti a scendere a compromessi durante il loro secondo mandato, ma è anche un dato di fatto che Donald Trump entrerà per la seconda volta alla Casa Bianca all’apice della sua popolarità. La sua vittoria elettorale non è stata una partita al cardiopalma come nel 2016, né si può più parlare di un passo falso della storia. Dopo quattro anni alla guida del paese, seguiti da altri quattro di costante presenza nei media, processi legali, scontri senza esclusione di colpi e una campagna elettorale aspra e divisiva, Donald J. Trump è ormai una figura ben nota a tutti negli Stati Uniti. Gli americani lo hanno scelto con piena consapevolezza della sua persona. E con una chiarezza che non significa solo una sconfitta, ma una vera e propria umiliazione per i democratici.
Non c’è spazio per riflessioni sulla sua rielezione, il risultato elettorale è impressionante e vede una maggioranza repubblicana in entrambe le camere del Congresso: Trump si trova quindi in una situazione che pare dargli carta bianca. Con queste premesse, puntare su una moderazione del litigioso presidente sembra un po’ ingenuo.
Dobbiamo quindi aspettarci che i dazi punitivi minacciati siano inevitabili? No. Considerata l’imprevedibilità di Trump, minacciare dazi doganali può essere una mossa tattica. Riteniamo tuttavia azzardato attribuire una schiacciante probabilità a questa possibilità. Alla luce delle considerazioni fatte, un «Ora più che mai!» alla Trump sembra altrettanto probabile e non dovrebbe essere assolutamente trascurato come scenario.
A partire dal 20 gennaio il mondo dovrà quindi fare i conti con la realtà, e questo implica un certo potenziale di disincanto. C’è il rischio di un brusco risveglio dal dolce mondo dei sogni e non solo per ciò che riguarda Donald Trump. Lasciarsi guidare solo dai propri desideri è un’abitudine talmente diffusa che l’uno o l’altro sgomento non dovrebbe sorprendere nessuno.
Sperare che l’IA si diffonda
Esempio sui mercati finanziari: il boom dell’IA sulle borse valori ha preso velocità nel 2024 e non sembra cedere, tutt’altro, nonostante il crescente divario tra la valutazione e l’utile effettivo delle rispettive società. Solo l’anno scorso, ad esempio, i corsi delle azioni dei Magnifici 7 sono aumentati in media del 67%, mentre i relativi utili sono cresciuti del 30%. Il fatto che il rally non sia (ancora) giunto agli sgoccioli ha molto a che vedere con la speranza che l’ondata dell’IA si estenda finalmente ad altri settori economici oltre le Big Tech. Riuscirà a prendere piede nel 2025? Si vedrà.
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Taiwan: la storia si ripete?
Esempi di un imminente confronto con la realtà ci sono tuttavia anche al di fuori dei mercati finanziari. In geopolitica, per esempio. Il mondo sembra voltare lo sguardo dall’altra parte quando si parla delle intenzioni della Cina nei confronti di Taiwan. Quando Pechino non fa mistero di considerare l’isola come un territorio cinese, quando le provocazioni cinesi nel Mar Cinese Meridionale si fanno sempre più frequenti e audaci, quando le manovre militari su larga scala delle forze armate cinesi hanno apertamente carattere di esercitazioni di blocco e di invasione – la comunità internazionale reagisce con notevole indifferenza, ricordando un vero e proprio appeasement.
Ciò sorprende in particolare dal punto di vista europeo. Infatti, nonostante la chiara retorica utilizzata in precedenza da Mosca, nonostante la forzata annessione della Crimea e persino nonostante il massiccio dispiegamento di truppe russe al confine ucraino, gli europei hanno reagito con stupore quando la Russia ha infine invaso l’Ucraina tre anni fa. In questo contesto, è lecito chiedersi se la storia si ripeterà nel caso di Taiwan. Ma la domanda è talmente scomoda che si preferisce evitarla. Infatti, se ricordiamo le riprovazioni immediate causate dalla sola invasione dell’Ucraina, insignificante per l’economia globale, è difficile immaginare quali sarebbero le conseguenze di un eventuale attacco della seconda economia mondiale contro il produttore di chip di gran lunga più importante. Anche in questo caso: non intendiamo in alcun modo screditare un’escalation militare della questione taiwanese. La tattica della testa nella sabbia ci sembra poco appropriata, visti i possibili effetti di un peggioramento della situazione.
Svolta energetica: sogno o incubo dell’Europa
La convinzione che la realtà debba adattarsi alle ambizioni sembra spesso essere il principio guida della transizione energetica. In particolare, alla politica europea non sono mai mancate ambizioni elevate. Tuttavia, il confronto con la realtà è inevitabile anche in questo ambito, se non è già iniziato. Vendite di auto elettriche che avanzano a rilento e che senza sovvenzioni statali resterebbero quasi ferme. Un’industria automobilistica che ha convertito prematuramente gran parte della propria infrastruttura produttiva all’elettromobilità. Una rete elettrica sempre più sovraccarica in molte aree a causa della produzione decentralizzata e intermittente di energia solare ed eolica. Regolamenti sulla sostenibilità sempre più rigidi, che per molte aziende si trasformano in un incubo burocratico. E, come risultato di tutto questo, un’industria europea che soffre per prezzi dell’energia non competitivi e rischia di soffocare in una giungla di regolamentazioni. Questa divergenza tra obiettivi e realtà dovrebbe essere tenuta in considerazione, soprattutto da una prospettiva di investimento.
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Sistema economico cinese in un vicolo cieco
Il divario tra desiderio e realtà è notevole anche in Cina. Qui la crisi immobiliare, che perdura da anni e si è acuita dopo il fallimento di Evergrande, aspetta ancora una soluzione e sta di conseguenza paralizzando la crescita economica. Sebbene Pechino e molti investitori si aggrappino alla speranza che i tagli dei tassi annunciati dalla Banca centrale cinese possano contrastare la debolezza della congiuntura, considerata la durata della crisi immobiliare nella seconda economia mondiale, le misure di sostegno appaiono disperate. Queste, infatti, sono scarsamente efficaci per affrontare il problema di fondo di un sistema economico basato su un tasso di risparmio estremamente elevato (e, di conseguenza, su consumi interni deboli) e, allo stesso tempo, su un enorme surplus di esportazioni. E non possono decisamente fare fronte a un inasprimento del regime doganale punitivo statunitense. In tal senso, per la Cina il confronto con la realtà consiste niente di meno nel chiedersi se Pechino riconosca l’impasse e se la ricerca di un aumento dei consumi privati non sia solo una mera dichiarazione d’intenti. Dal momento che un rafforzamento dei consumatori, a breve o a lungo termine, è accompagnato anche da una loro maggiore rilevanza politica, la risposta resta in sospeso.
Ovunque si guardi, c’è il confronto con la realtà. Alcune delle incertezze dovrebbero dissolversi nel corso del nuovo anno. Altre, a loro volta, continueranno oltre il 2025. Ciò vale in particolare per la Svizzera, sebbene nel nostro Paese un comportamento da struzzo non sia affatto possibile grazie al sistema della democrazia diretta. Più volte all’anno l’elettorato si reca alle urne e prende posizione a tutti i livelli statali, su questioni più o meno importanti. Nel 2025, la questione delle relazioni tra la Svizzera e l’UE rimarrà come una montagna all’orizzonte: gli accesi dibattiti parlamentari sul tema sono attesi solo per il 2026, mentre le tre iniziative popolari, che qualora si concretizzassero, potrebbero demolire l’accordo faticosamente negoziato, giungeranno al voto popolare non prima del prossimo anno. Quindi neppure la Svizzera è immune da un vero e proprio confronto con la realtà. Gode solo di una tregua un po’ più lunga.
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Santosh Brivio
Senior Economist
Banche centrali
Confronto con la realtà
Le banche centrali hanno ridimensionato notevolmente le loro ambizioni di allentamento monetario rispetto a qualche mese fa. I tassi d’inflazione, che restano stabilmente al di sopra degli obiettivi fissati, spingono i banchieri centrali a essere più prudenti.
Sebbene a dicembre la Fed statunitense abbia anticipato un terzo taglio dei tassi consecutivo, il suo presidente Jerome Powell ha preparato contemporaneamente i mercati a un ritmo più lento e a una possibile pausa più lunga nel ciclo di riduzione.
La Fed è ancora scottata
I mercati finanziari sono stati riportati alla realtà e messi al loro posto: il fatto che prevedano significativi tagli dei tassi d’interesse non significa affatto che possano spingere la Fed a muoversi secondo le loro aspettative. Anzi, i vertici della banca centrale statunitense ricordano ancora dolorosamente il 2021, quando reagirono troppo tardi all’aumento dell’inflazione, troppo a lungo gravemente sottovalutato.
I banchieri centrali statunitensi intendono evitare assolutamente di ricommettere un simile errore. L’effetto inflazionistico della politica di Trump e la solidità della congiuntura statunitense li spingono pertanto a essere prudenti. Riteniamo quindi che attenderanno anzitutto gli effetti dei primi mesi del nuovo governo statunitense e procederanno a un’ulteriore riduzione dei tassi non prima dell’estate. Dal momento che la congiuntura statunitense assorbe indenne questo livello elevato dei tassi di riferimento e che le pressioni inflazionistiche rimangono elevate, ci attendiamo in seguito una pausa fino al 2026 inoltrato.
BCE: condannata a intervenire
Al contrario, la BCE continuerà sulla strada della riduzione dei tassi d’interesse con un taglio di 25 punti base previsto sia nella riunione di gennaio che in quella di marzo. Tuttavia, anche nell’Unione monetaria persiste un’inflazione elevata e i rischi aumentano a fronte della prospettiva di crescenti controversie commerciali. A causa della debolezza economica e dell’elevato indebitamento di alcuni importanti Stati membri, Francoforte non può per il momento rinunciare a ulteriori misure di allentamento. Tuttavia, nemmeno la BCE potrà fare a meno di affrontare i rischi inflazionistici. Ci attendiamo pertanto una riduzione del ritmo nel corso dell’anno e prevediamo un totale di tre fasi di allentamento di 25 punti base ciascuna entro la fine del 2025.
La BNS è di nuovo un rebus da risolvere
Dopo la decisione inaspettata presa nella riunione di settembre, la BNS è tornata a incarnare l’incertezza, presentandosi come un rebus da risolvere: è del tutto incerto quale strada sceglierà nella prossima riunione di marzo. Sta di fatto che il franco forte e il basso tasso d’inflazione sono una spina nel fianco per la BNS, quindi una riduzione dei tassi d’interesse è molto probabile. Nello scenario di base, ci aspettiamo una riduzione di 0,25 punti percentuali, ma non escludiamo un intervento più deciso con un taglio di 50 punti base. Se le autorità monetarie dovessero intervenire pesantemente per la seconda volta consecutiva, il tasso di riferimento sarebbe pari allo 0% già in primavera. Continuiamo a ritenere inefficace spingersi in territorio negativo. Le ripercussioni per il corso EUR/CHF e per la dinamica inflazionistica sarebbero nel migliore dei casi minime, mentre sarebbero gravi i danni collaterali (remunerazione degli averi di risparmio, pressione sui sistemi previdenziali o aumento dei prezzi sul mercato immobiliare).
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Santosh Brivio
Senior Economist
Mercato dei capitali
Cani che abbaiano e cani silenziosi
Grazie alla BCE, il mercato dei capitali europeo rimane sorprendentemente calmo nonostante le turbolenze politiche e i problemi di bilancio in vari Paesi. Invece, negli Stati Uniti, il mercato dei capitali ha iniziato a lanciare segnali di allarme.
La celebre domanda di Sherlock Holmes – perché un cane da guardia non ha abbaiato quando avrebbe dovuto? – si applica perfettamente al mercato europeo: in Germania, Francia o Austria emergono gravi conflitti di bilancio, sebbene i deficit strutturali nei Paesi dell’eurozona siano tutt’altro che una rarità, e sebbene ci vi siano incertezze di governo da L’Aia a Parigi e da Berlino a Vienna, sul mercato dei capitali europeo si notano a malapena aumenti nei premi di rischio.
«Oh mon Dieu!»
Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso dei titoli francesi. Il debito pubblico della seconda economia più grande dell’eurozona è ormai salito a circa il 112% del PIL. In ben 45 anni, non si è registrato neanche un singolo (!) trimestre in surplus di bilancio. Per il 2024 il disavanzo di bilancio è del 5,5% e nell’anno in corso dovrebbe addirittura salire al 7%. In un Paese noto per le sue manifestazioni, le riforme sono tanto difficili da attuare quanto lo è governare per l’attuale governo, che non dispone di una maggioranza parlamentare.
E nonostante tutte queste avversità, con circa il 3,3% il rendimento dei titoli di Stato francesi a dieci anni vacilla solo di 70 punti base al di sopra della media degli ultimi due anni. Lo spread, ovvero il premio di rischio, rispetto al rendimento dei Bund tedeschi si è ampliato di appena 42 punti base nello stesso periodo.
Ci penserà la BCE
La ragione di questa reazione così contenuta va ricercata nella Banca Centrale Europea (BCE). Grazie al Transmission Protection Instrument (TPI), la BCE ha la possibilità di acquistare illimitatamente obbligazioni francesi, qualora necessario, al fine di tenere sotto controllo i tassi d’interesse. Il criterio? Un vago e ambiguo «ingiustificato» riferito all’inasprimento delle condizioni di finanziamento.
Gli investitori sanno che, in caso di dubbio, per la BCE sarà più importante la coesione dell’eurozona, anche a costo di interpretare in modo discutibile il proprio mandato. Così facendo, però, Francoforte silenzia il principale campanello d’allarme in caso di difficoltà finanziarie: i tassi. Il cane non abbaia più.
USA: attenzione al cane che morde
Tanto più forte abbaia il cane da guardia negli Stati Uniti. I tassi d’interesse sui titoli di Stato a dieci anni (treasury) sono aumentati di un intero punto percentuale in meno di quattro mesi. Con circa il 4,6% i rendimenti dei treasury hanno raggiunto i livelli registrati per l’ultima volta a maggio di un anno fa. È un dato degno di nota, in quanto la scorsa primavera il tasso di riferimento statunitense si attestava a un livello storicamente elevato compreso tra il 5,25 e il 5,50%. Da allora la Fed ha già allentato tre volte la politica monetaria riducendo il tasso di riferimento a un range del 4,25-4,50%.
Questo dovrebbe fugare anche gli ultimi dubbi sul tema «higher for longer». Chi legge regolarmente Prospettive d’investimento sa che utilizziamo spesso questa formulazione per riassumere la nostra opinione secondo cui le aspettative di riduzione dei tassi di interesse implicite nel mercato sono eccessive. Siamo convinti che un’aspettativa congiunturale troppo pessimistica, una prospettiva inflazionistica troppo ottimistica e, non da ultimo, il desiderio di una liquidità di nuovo conveniente abbiano spinto molti a vedere i tassi di interesse attraverso una lente troppo rosea. Ancora una volta, il desiderio sovrasta la ragione.
Ma nonostante questa aspettativa «higher for longer», l’attuale livello dei rendimenti sorprende anche noi. Tuttavia, non riteniamo che il notevole aumento dei tassi sia di per sé negativo. Anche per quanto riguarda le borse valori, seguiamo con maggiore vigilanza l’andamento del mercato dei capitali. Allo stesso tempo, riteniamo che l’impennata dei rendimenti obbligazionari sia un segnale che negli Stati Uniti il cane da guardia sta ancora svolgendo il suo servizio in modo esemplare, avvisando a gran voce in caso di pericoli imminenti.
Segnale di allarme giustificato
Ci sono ragioni per questo abbaiare: in primo luogo, il programma fiscale e di spesa di Trump farà crescere ulteriormente il debito pubblico americano, pari già al 100% del PIL. Con un nuovo indebitamento stimato a 7,5 bilioni di dollari, il debito pubblico degli Stati Uniti alla fine del mandato di Trump sarebbe pari al 121% del PIL. Sempre più investitori si chiedono quindi se anche l’economia dominante possa davvero indebitarsi impunemente in questa misura.
In secondo luogo, i dazi annunciati torneranno ad alimentare l’inflazione. Anche se non prevediamo un nuovo shock inflazionistico come nel 2022, la pressione al rialzo dei prezzi, già ostinatamente alta, continuerà a crescere con la politica commerciale proposta da Trump e l’obiettivo d’inflazione del 2% fissato dalla Fed rimane molto lontano. Tuttavia, ciò significa anche che il margine di manovra per ulteriori riduzioni dei tassi d’interesse si sta restringendo sempre di più. La Fed stessa ha ridimensionato notevolmente i suoi piani di allentamento, e per il 2025 i mercati hanno ormai pienamente scontato un solo ulteriore taglio dei tassi.
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Il debito pubblico statunitense diventerà davvero un problema? E l’inflazione tornerà con una forza fastidiosa? Anche in questo caso bisogna fare i conti con la realtà. Perlomeno, il mercato dei capitali sta già prevedendo come andrà a finire.
Alla Svizzera non serve un cane da guardia
Mentre il cane da guardia del mercato dei capitali nell’eurozona è in coma indotto, il suo omologo statunitense svolge il suo dovere in modo esemplare. Viene da chiedersi come stia reagendo il cane da guardia in Svizzera. Per rimanere nella metafora: la Svizzera non ha un cane da guardia, né ha la necessita di averne uno. Le finanze pubbliche sono estremamente solide, il freno all’indebitamento evita disavanzi di bilancio eccessivi e in genere l’inflazione si muove stabilmente all’interno del target fissato dalla BNS. In questo contesto, non c’è motivo di lanciare segnali d’allarme sotto forma di tassi d’interesse esorbitanti. E non è tutto: finché persisteranno soprattutto le incertezze in Europa, i titoli di Stato della Confederazione rimarranno richiesti come porto sicuro e i rendimenti delle obbligazioni decennali della Confederazione sotto pressione. Per il momento la situazione non cambierà. Anche se il mercato svizzero dei capitali avesse la funzione di cane da guardia, non ci sarebbe ancora motivo per abbaiare.
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Santosh Brivio
Senior Economist
Azioni
Tenere d’occhio i rischi
Nonostante i due anni di forte crescita del mercato azionario statunitense e l’ottimismo per le politiche economiche favorevoli agli Stati Uniti promosse da Trump, è importante rimanere vigili e tenere d’occhio i rischi.
Ottimismo scontato
L’indice S&P 500 ha guadagnato oltre il 20% per due anni consecutivi, un evento che, storicamente, si verifica piuttosto di rado. Questo rally è stato alimentato dall’ottimismo degli investitori riguardo al calo dell’inflazione e all’atterraggio morbido della Fed, nonché dall’euforia per la svolta tecnologica nel campo dell’intelligenza artificiale. Di quest’ultima hanno beneficiato soprattutto le azioni Big Tech, altamente ponderate nell’indice e che hanno contribuito fortemente al suo successo. Inoltre, nell’ultimo trimestre gli operatori di mercato hanno scontato le loro ipotesi ottimistiche sugli effetti positivi della politica economica di Donald Trump sull’economia statunitense.
Le valutazioni sul mercato azionario statunitense hanno raggiunto un livello elevato sulla scia del rialzo. Ciò ha riguardato non solo i grandi titoli IT. Anche le grandi banche statunitensi e le società industriali hanno registrato un aumento delle valutazioni rispetto alle loro controparti di altri Paesi. Ciò rende il mercato azionario statunitense vulnerabile a eventi imprevista e limita in una certa misura il potenziale di rendimento ulteriore, in particolare alla luce dei rischi che potrebbero profilarsi all’orizzonte.
I rischi gettano ombre
Uno dei rischi più rilevanti per il mercato statunitense, caratterizzato da valutazioni elevate e una forte concentrazione tecnologica, è rappresentato dal livello dei tassi di interesse. Nonostante i tagli ai tassi di riferimento operati dalla Fed, i tassi di interesse a lungo termine negli Stati Uniti sono aumentati significativamente, spinti dalle aspettative di un’accelerazione dell’inflazione dovuta alle politiche economiche di Trump. Attualmente, i tassi a lungo termine si attestano al 4,6%, solo leggermente al di sotto del picco post-pandemico pari a circa il 5%. Se i tassi a lungo termine dovessero continuare a salire notevolmente nel corso dell’anno a causa degli effetti inflazionistici della politica fiscale espansiva e di un contesto di tensione sul debito pubblico statunitense, ciò lascerà tracce sui mercati azionari statunitensi. I tassi d’interesse elevati non solo gravano sulle imprese a causa delle difficili condizioni di finanziamento, ma hanno anche un impatto negativo diretto sulle valutazioni degli analisti e, quindi, tendenzialmente sull’andamento delle quotazioni.
Le azioni statunitensi beneficeranno senza dubbio del sostegno della politica economica, ma alla luce delle incertezze che circondano il nuovo governo statunitense gli investitori faranno bene a diversificare ampiamente le proprie posizioni, prendendo in considerazione anche altre regioni.
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Andrej Franz
Specialista in investimenti
Investimenti alternativi
Il flemmatico mercato immobiliare svizzero
Nuovo livello dei tassi, dibattito politico e avversità congiunturali: il mercato immobiliare svizzero non sembra risentirne particolarmente. È caratterizzato da fattori strutturali e da tendenze stabili a lungo termine.
Il dibattito sull’immigrazione è sempre più al centro della politica svizzera. La questione di quante persone possa sopportare il nostro Paese diventerà sempre più scottante nel 2025.
La Svizzera mantiene la sua attrattiva
Sulle cifre effettive della migrazione, tuttavia, il dibattito politico non lascia (ancora?) traccia neanche nel 2025. La Svizzera rimane un interessante Paese di immigrazione, soprattutto nel difficile contesto economico europeo. L’afflusso di forza lavoro qualificata non si arresterà quindi neanche quest’anno.
Di conseguenza cambia ben poco in uno dei principali motori del mercato immobiliare svizzero: la pressione sul versante della domanda rimane elevata e mantiene i prezzi ben sostenuti, in particolare per gli immobili residenziali. La forte domanda continua infatti a scontrarsi con un’offerta caratterizzata da una persistente scarsità. Sebbene anche grazie al nuovo calo dei tassi d’interesse l’attività edilizia riprenderà slancio, lasciandosi alle spalle la fase di stagnazione acuta degli ultimi anni, non si prevede un vero e proprio boom edilizio. Ciò è riconducibile a due ragioni principali. Da un lato, le riserve di terreni edificabili disponibili sono sempre più ridotte, il che limita il potenziale di nuove costruzioni. D’altra parte, molti investitori istituzionali hanno già (quasi) esaurito la quota immobiliare massima prevista dalla normativa. La rinnovata carenza di opportunità di investimento non può quindi riversarsi sul mercato immobiliare con la stessa intensità di quanto accaduto, ad esempio, durante l’ultima fase dei tassi negativi.
Nessun calo dei prezzi
L’eccesso di domanda si ridurrà quindi, se accadrà, solo marginalmente. Ciò si osserva sia per gli immobili di proprietà che per quelli in locazione. Non si prevede che i prezzi delle transazioni diminuiscano, né che gli affitti richiesti, in particolare nelle zone residenziali più ambite, diminuiscano in modo capillare. Infatti la flessione del tasso di riferimento nel corso dell’anno si ripercuoterà soprattutto sugli affitti già in essere, e solo in misura limitata.
Non cambia praticamente nulla sul mercato degli immobili residenziali. Questo vale anche per il mercato immobiliare a uso commerciale. Per quanto riguarda gli uffici e le superfici di vendita, le rivoluzioni strutturali come l’home office o l’e-commerce provocano una costante pressione sui prezzi. Per le superfici commerciali si aggiungono le difficoltà dovute alla difficile situazione economica.
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Santosh Brivio
Senior Economist
Il nostro posizionamento
Ottimismo sì, euforia no
Le prospettive congiunturali rimangono positive, soprattutto negli Stati Uniti. In altre aree economiche, tuttavia, il contesto continua a presentare sfide impegnative e rischi persistenti. Si consiglia una certa cautela.
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Azioni
leggera sovraponderazione
Il contesto congiunturale nonché le previste misure di deregolamentazione e le agevolazioni fiscali dell’amministrazione Trump continuano a fornire un supporto favorevole alle azioni statunitensi nel breve termine. Tuttavia, le valutazioni estremamente elevate esortano a una maggiore prudenza. In particolare, per i titoli trainati dall’ondata dell’intelligenza artificiale, sarà fondamentale che la crescita degli utili inizi a colmare il divario rispetto agli aumenti dei prezzi delle azioni.
Le azioni europee sono nettamente più convenienti, ma, d’altro canto, la situazione congiunturale è molto più difficile che negli Stati Uniti. L’incertezza legata a nuovi e dolorosi dazi punitivi da parte degli USA amplifica ulteriormente il vento contrario già causato dalla crescita economica stagnante. Alla luce di queste considerazioni, non riteniamo che ci siano (ancora) le condizioni per aspettarsi sorprese positive significative. Per questo motivo, continuiamo a considerare le azioni statunitensi più attraenti rispetto a quelle europee.
Obbligazioni
sottoponderazione
L’ambiente di tassi di interesse estremamente bassi in Svizzera persiste per il momento, rendendo difficile trovare rendimenti soddisfacenti nel segmento investment-grade. All’estero, l’andamento dei tassi sul mercato dei capitali si è in parte dissociato da quello dei tassi di riferimento, pertanto gli investimenti in valuta estera possono continuare a essere interessanti.
Investimenti alternativi
leggera sovraponderazione
Non si intravede un’inversione di tendenza per quanto riguarda i prezzi in rialzo degli immobili residenziali in Svizzera. Inoltre, il calo dei tassi di interesse incide maggiormente sui costi di finanziamento piuttosto che sugli affitti. Di conseguenza, anche il contesto per gli immobili a reddito rimane in linea di massima favorevole, giustificando il mantenimento di una leggera sovraponderazione degli investimenti immobiliari svizzeri. Nei confronti degli immobili esteri continuiamo invece a essere prudenti, anche se in ragione del mutato contesto dei tassi d’interesse aumentiamo leggermente la relativa allocazione al di sopra della quota neutra.
Alla luce dei rischi persistenti, riteniamo ancora opportuno mantenere una quota di oro tattica, mentre per le stesse ragioni manteniamo una leggera sottoponderazione delle materie prime.
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Santosh Brivio
Senior Economist
Tema centrale
L’anno degli investimenti immobiliari
Mentre il mercato azionario svizzero (SPI) ha registrato una crescita moderata nel 2024, con una performance di quasi il 3%, gli investimenti immobiliari indiretti, come azioni e fondi, hanno evidenziato incrementi di valore rispettivamente del 18 e del 10%.
I quattro tagli dei tassi d’interesse effettuati dalla BNS hanno dato slancio al mercato immobiliare. Nel 2024 le azioni immobiliari hanno registrato un incremento del valore del 10%. I fondi immobiliari sono cresciuti addirittura del 18%. Questa evoluzione è dovuta a diversi fattori. Da un lato, i tassi ipotecari sono diminuiti come conseguenza diretta delle riduzioni dei tassi di riferimento. L’ipoteca fissa a 10 anni costa attualmente l’1,36%. L’ipoteca fissa a 5 anni ammonta all’1,1%. Le condizioni di finanziamento più favorevoli rendono i finanziamenti immobiliari più accessibili. I bassi tassi d’interesse sono positivi non solo per il finanziamento, ma anche per la valutazione immobiliare. D’altro canto, gli investimenti immobiliari hanno guadagnato attrattiva rispetto alle obbligazioni a tasso fisso. Mentre un titolo di Stato svizzero a dieci anni genera solo un reddito da interessi annuo pari allo 0,23%, con un fondo immobiliare con una quota di distribuzione media attualmente pari al 2,5% si possono ottenere rendimenti molto più elevati.
Aumenti di capitale
L’elevata attrattiva fa sì che i fondi immobiliari riprendano a raccogliere capitali dopo due anni di stagnazione. Per l’intero 2024 gli aumenti di capitale dei fondi immobiliari svizzeri ammontano a circa 2 miliardi di franchi. Questi aumenti sono stati ben assorbiti dal mercato, grazie al calo dei rendimenti obbligazionari e all’aumento delle quote immobiliari da parte dei fondi pensione, sostenuto dalla solida performance dei mercati azionari. Poiché i finanziamenti esterni da parte delle banche sono diventati tendenzialmente più complicati, il mercato dei capitali offre una valida alternativa. Dopo la forte frenata dell’attività di aumento di capitale nel 2022 e nel 2023, questo andamento è ancora più degno di nota.
Aggi elevati dei fondi immobiliari
La positiva performance dei fondi immobiliari ha anche fatto sì che gli aggi, le maggiorazioni dei fondi immobiliari sul valore intrinseco (valore netto d’inventario), siano fortemente aumentati. Questo sovrapprezzo è ormai salito a oltre il 25%, nettamente al di sopra della media storica. Anche se la BNS potrebbe ulteriormente ridurre i tassi di interesse e la domanda di abitazioni rimane elevata, gli aggi elevati potrebbero probabilmente limitare il potenziale di rialzo dei fondi immobiliari. Per le azioni immobiliari, invece, gli aggi sono ancora nettamente inferiori. Se la situazione sul mercato immobiliare svizzero dovesse continuare a evolvere positivamente, questi potrebbero tuttavia cambiare nel corso dell’anno.
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Andrea Bally
Anlagespezialistin
Le nostre previsioni
Aspettando il presidente Trump
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Congiuntura
All’inizio dell’anno, lo scenario economico globale si trova in attesa del secondo mandato di Donald Trump. Mentre l’economia americana dovrebbe beneficiare di un’accelerazione grazie alle politiche del presidente repubblicano, i venti contrari per l’economia dell’eurozona, già in difficoltà, sembrano destinati a intensificarsi. Di conseguenza, anche per l’economia svizzera la situazione rimarrà sfavorevole.
Inflazione
I rischi inflazionistici stanno aumentando, soprattutto a causa dell’annuncio dei dazi punitivi statunitensi, mentre l’obiettivo del 2% si allontana. Nel nostro Paese l’aumento dei prezzi rimane all’interno della fascia di oscillazione compresa tra lo 0 e il 2% fissata dalla BNS.
Tassi d’interesse
Come ipotizzato dai mercati, i tassi di riferimento scenderanno meno negli Stati Uniti e nella eurozona. La Fed si fermerà per un lungo periodo, mentre la BCE farà una pausa nel corso dell’anno. La BNS, a sua volta, ridurrà il tasso di riferimento allo 0% nei primi sei mesi dell’anno. Per il momento non ci attendiamo tassi d’interesse negativi.
A causa delle incertezze sulla politica di Trump, i rendimenti dei treasury rimangono per il momento al di sopra della soglia del 4%. I tassi del mercato dei capitali rimangono elevati anche in Europa, ma la fiducia nella BCE impedisce un drastico aumento. I rendimenti delle obbligazioni della Confederazione rimangono sotto pressione.
Valute
L’euro rimane sotto pressione per ragioni strutturali, contro le quali anche la politica monetaria può fare ben poco. Il dollaro rimane ben sostenuto grazie alla forza economica e al vantaggio in termini di tassi d’interesse degli Stati Uniti.
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Santosh Brivio
Senior Economist
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© Banca Migros, Santosh Brivio